Diritto Tributario, Finanziamento dei soci e presunzione di onerosità. Sentenza della Cassazione n. 17839 del 9 settembre 2016.
Diritto Tributario – Nell’attività di impresa svolta da società accade molto di frequente che le risorse finanziarie necessarie per investimenti siano conseguite, piuttosto che attraverso lo strumento tipico del credito bancario, utilizzando i finanziamenti effettuati dagli stessi soci i quali, ordinariamente, non sono interessati all’immediata remunerazione delle somme apportate, ma, invece, a promuovere la continuità o la crescita aziendale della società, magari con la prospettiva di percepire in seguito maggiori utili o di lucrare plusvalenze in caso di cessione.
Orbene, rispetto all’ipotesi del finanziamento soci, le due norme ‘rilevanti’ sotto il profilo fiscale sono l’art. 45, comma 2 del T.U.I.R. (ai sensi del quale, in caso di mutuo, si presume il saggio legale e la maturazione degli interessi in ogni periodo di imposta in cui sussiste il finanziamento, salvo prova contraria) e l’art. 46, comma 1 del T.U.I.R. (secondo cui le somme versate alle società dai loro soci si considerano date a mutuo se dai bilanci o dai rendiconti di tali soggetti non risulta che il versamento è stato fatto ad altro titolo).
Come si può intuire, le due riferite disposizioni sono totalmente autonome giacché la configurazione di un mutuo, ai sensi dell’art. 46 del T.U.I.R., non implica la presenza di interessi di cui, infatti, si può provare l’esclusione, secondo l’art. 45 del T.U.I.R., con ogni mezzo consentito. Ciò anche in forza di quanto stabilito dall’art. 1815 c.c. secondo cui il carattere fruttifero del prestito è presunto “salvo diversa volontà delle parti”.
Malgrado tale sostanziale chiarezza normativa, invece, per la Cassazione – allineata su posizione filo-amministrativa che, peraltro, tende a manifestarsi in modo preoccupante anche su altri ‘temi’ non meno ‘scottanti’ -, laddove si accerti che, in base alla presunzione stabilita dall’art. 46, comma 1, del T.U.I.R, le somme versate alle società dai loro soci sono state concesse in mutuo, si presume che il finanziamento sia anche oneroso.
Questo discutibile orientamento – che si traduce nella forzata attrazione delle questioni connesse alla misura ed alla scadenza degli interessi nella autonoma sfera dei requisiti afferenti al mutuo a cui è collegata l’inversione dell’onere della prova in capo al contribuente – ha trovato conferma anche nella recente sentenza n. 17839 della Cassazione, Sezione Tributaria, pubblicata il 9 settembre 2016.
Nella riferita pronuncia – nella quale peraltro si richiama anche la precedente decisione della stessa Corte n. 16445 del 15 luglio 2009, seguita dall’altra sentenza n. 2735 del 4 febbraio 2011 – la Cassazione ha sostenuto che “i versamenti dei soci alla società si presumono onerosi”, con la precisazione (derivante proprio dalla forzata ed apodittica associazione degli artt. 45 e 46 del T.U.I.R.) che la presunzione di onerosità del versamento “è vincibile soltanto nei modi e nelle forme tassativamente stabilite dalla legge, in particolare dimostrando che i bilanci allegati alle dichiarazioni dei redditi della società contemplavano un versamento fatto a titolo diverso dal mutuo”.
Ora, è evidente che siffatto indirizzo giurisprudenziale ha legittimato, nel corso di questi anni, frequenti accertamenti fiscali in cui è stata contestata la presunzione di fruttuosità di finanziamenti in assenza di qualsiasi riscontro finanziario e, magari, con il supporto di motivazioni a carattere teorico sul valore normale (qualora ricorrano i presupposti per applicare le norme sul transfer pricing), sull’antieconomicità (spiegata con l’assenza di un reale beneficio per il socio che immette liquidità nella società) o sull’abuso del diritto prima della recente riforma (magari per importi consistenti ed in assenza di argomentazioni più specifiche), dando luogo a rettifiche che, in concreto, non conducono alla scoperta di nessuna evasione ma che, nondimeno, spesso ‘si chiudono’ negativamente per il contribuente, ‘condizionato’ dagli stringenti limiti probatori imposti dalle forzature interpretative della Cassazione.
Alla luce di ciò, nel caso di finanziamenti ai soci, onde prevenire strumentali contestazioni da parte dell’Erario sulla natura del versamento e sulla sua fruttuosità, è fondamentale attenersi alle rigorose (per quanto discutibili) indicazioni della Corte di legittimità fin dal momento dell’operazione di finanziamento attraverso l’evidenza nel bilancio di esercizio della natura del versamento che – come precisato dall’Organismo Italiano di Contabilità nel Documento n. 28/2014 – deve essere iscritto in un’apposita riserva del patrimonio netto a titolo di apporto di capitale, quale ‘conferimento atipico’ ovvero quale versamento in conto capitale (o a fondo perduto).